Tacnazo

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Il 11 settembre 1973 segna un momento cruciale nella storia cilena, quando Salvador Allende, presidente eletto del Cile, si rifiutò di arrendersi e morì difendendo il Palazzo della Moneda.

Questo episodio non è solo il culmine di uno scontro ideologico, ma il risultato di un complesso intreccio di eventi e tensioni politiche che avevano caratterizzato il paese negli anni precedenti.

Tecnazo

Nel 1969, il rapporto dello Stato Maggiore Congiunto cileno, presentato al Ministro della Difesa Sergio Ossa del governo democristiano di Edoardo Frei Montalva, esprimeva preoccupazioni riguardo a possibili disordini interni in vista delle elezioni presidenziali del 1970 che vedranno vincente la coalizione guidata da Salvador Allende.

I militari ritenevano che una vittoria della sinistra avrebbe portato a una divisione all'interno delle forze armate e a una rottura del pluralismo politico, simile a quanto accaduto in altri paesi socialisti.

Queste ansie furono amplificate da una rivolta militare guidata dal generale Roberto Viaux nell'ottobre del 1969, che, sebbene si risolvesse attraverso negoziati, contribuì ad aumentare le tensioni tra i militari attivi e quelli in pensione.

Il "Tacnazo" rappresentò una rivolta significativa contro il governo del presidente Eduardo Frei Montalva, le cui cause erano radicate nelle dinamiche interne delle Forze Armate e nelle condizioni socio-economiche del paese, piuttosto che nella politica di Salvador Allende.

Questa insurrezione, guidata dal generale Roberto Viaux e dal colonnello Sergio Arellano Stark, evidenziò una frattura all'interno delle forze militari, una divisione che avrebbe avuto ripercussioni negli anni successivi.

I ribelli, sostenuti da una parte significativa del corpo militare, giustificarono la loro azione con la richiesta di miglioramenti salariali e pensionistici. Criticarono l'intera classe politica, accusandola di inefficienza e di aver contribuito al deterioramento dell'ordine pubblico e dell'economia. Alcuni settori della rivolta, compresi ufficiali in pensione, interpretarono l'insurrezione come un atto di "rigenerazione" nazionale, motivato da un forte nazionalismo e da un anti-comunismo radicato.

Viaux, in particolare, si mostrava un convinto oppositore del comunismo, sostenendo un ruolo più attivo e autonomo delle Forze Armate nella vita politica del paese.

Dall'altro lato, i militari "constitutionalisti" o lealisti, guidati dal Comandante in Capo dell'Esercito, generale Carlos Prats González, e dall'Alto Comando, si opposero fermamente alla rivolta, pur comprendendo le rivendicazioni salariali. Prats e i suoi sostenitori consideravano la ribellione un attacco diretto alla disciplina militare e allo Stato di diritto. Prats cercò di mediare tra Viaux e il governo di Frei, favorendo una soluzione negoziata che garantì concessioni economiche per l'esercito senza ricorrere alla violenza. La sua priorità era mantenere l'unità delle Forze Armate, temendo che la rivolta potesse frantumare l'istituzione e aprire la strada a conflitti interni.

La divisione tra militari attivi e in pensione divenne evidente durante il "Tacnazo". Molti ufficiali in pensione, liberi dai vincoli disciplinari e pronti a esprimere posizioni politiche più radicali, aderirono apertamente alla rivolta. Questi ex militari, che vedevano in Viaux un possibile "salvatore" della patria, esercitarono una notevole influenza pubblica. Al contrario, la grande maggioranza dei militari attivi, pur condividendo il malcontento economico, rimase fedele alla disciplina e al dovere costituzionale, seguendo Prats nel tentativo di contenere la rivolta.

La risoluzione del "Tacnazo" avvenne attraverso concessioni economiche e la promessa di un ritiro di Viaux, che fu arrestato brevemente. Tuttavia, le conseguenze di questa insurrezione furono profonde e durature. Il "Tacnazo" introdusse l'idea che i militari potessero fungere da attori politici autonomi in grado di risolvere crisi nazionali. Carlos Prats emerse come figura chiave, guadagnando prestigio e diventando successivamente Comandante in Capo e, sotto Allende, Ministro degli Interni e della Difesa.

Le tensioni generate dal "Tacnazo" prepararono il terreno per il colpo di stato del 1973. Le reti cospirative che si erano formate nel 1969 non scomparvero; molti degli ufficiali coinvolti, come Arellano Stark, giocarono un ruolo attivo nel golpe. Questo episodio dimostrò la vulnerabilità dello stato cileno a un'azione militare, testando le acque per la futura ribellione.

L'Escuela Nacional Unificada

Durante il governo di Salvador Allende, tra il 1970 e il 1973, la proposta della Escuela Nacional Unificada (ENU) emerse come un ambizioso progetto di riforma strutturale dell'istruzione, volto a sostituire il sistema segmentato per classi sociali con un modello pubblico, gratuito, unitario e partecipativo. Questo progetto rappresentava un elemento centrale nella transizione del Cile verso il socialismo, ma si trovò ad affrontare una vasta e organizzata opposizione interna, sostenuta da attori internazionali che contribuirono al suo fallimento.

L'opposizione alla ENU si caratterizzò per la sua ampiezza e varietà, unendo diverse istanze ideologiche, interessi materiali e timori culturali. La Chiesa cattolica, sotto la guida del cardinale Raúl Silva Henríquez, giocò un ruolo cruciale nel mobilitare la resistenza contro la riforma. Pur mantenendo un dialogo critico con il governo, la gerarchia ecclesiastica denunciò pubblicamente quella che percepiva come una "statalizzazione" dell'educazione e un indottrinamento marxista della gioventù. Queste preoccupazioni risuonarono profondamente tra i fedeli, in particolare nella classe media, dove la Chiesa si pose come piattaforma organizzativa e legittimazione morale per la protesta.

Paolo VI sostenne la resistenza dell'episcopato cileno contro la riforma scolastica di Allende, mantenendo un legame formale con il governo e monitorando gli sviluppi tramite la Nunziatura Apostolica. Riconobbe la Conferenza Episcopale del Cile come interlocutore autorevole e avallò la loro opposizione, basandosi su documenti vaticani come Gravissimum educationis. La dottrina sociale di Paolo VI fornì argomenti solidi a sostegno dei vescovi, mentre la Santa Sede supportò la mobilitazione internazionale contro la riforma, offrendo un sostegno decisivo alla Chiesa cilena senza esporsi pubblicamente.

Accanto a questo, i partiti politici di destra e centro-destra, come il Partito Nazionale e la Democrazia Cristiana, interpretarono la ENU come strumento per consolidare un "Stato totalitario". Gli imprenditori, riuniti in organizzazioni come la Confederación de la Producción y del Comercio (CPC), temevano che la riforma minacciasse la proprietà privata, inclusa quella degli istituti educativi. Anche i proprietari di scuole private, che servivano principalmente la classe media e alta, si opposero fermamente al progetto, temendo di perdere autonomia e risorse economiche in un sistema unificato e statale. A questi si aggiunsero ampi settori della classe media, mobilitati dalla Chiesa e dai media conservatori, i quali percepivano la ENU come una minaccia al capitale culturale e alle opportunità di mobilità sociale per i propri figli, spesso esprimendo la loro opposizione in nome della "libertà di scelta educativa".